“La speranza appartiene ai figli. Noi adulti abbiamo già sperato, e quasi sempre abbiamo perso.”
Torno a recensire Margaret Mazzantini, con un altro suo capolavoro. Venuto al mondo non è solo un romanzo: è una discesa, lenta e dolorosa, dentro i territori scomodi dell’amore, della maternità, della guerra — quella che si combatte fuori e quella che ti scoppia dentro.
“Perchè nella vita capita di rinunciare alle persone migliori a favore di altre che non ci interessano, che non ci fanno del bene, semplicemente ci capitano tra i passi, ci corrompono con le loro menzogne, ci abituano a diventare conigli?”
Il desiderio che plasma l’identità
Gemma è una donna attraversata da un desiderio che le rimescola l’identità: vuole diventare madre, ma non per completarsi, bensì per giustificare una fame che la logora da dentro. La sua è un’ossessione che si fa strada tra le macerie di Sarajevo, tra stanze d’ospedale e promesse sussurrate nei corridoi delle ambasciate.

Venuto al mondo
Diego: luce e crepa
Accanto a lei c’è Diego, il compagno idealista e fragile, che resta inciso nella memoria come una fotografia bruciata ai bordi. È un uomo irregolare, fatto di luce e sbavature, incapace di restare ma impossibile da dimenticare. Il loro amore è un incastro imperfetto, una bellezza che si sbriciola sotto il peso delle cose che non si possono avere.
“Aveva semplicemente perso il senso della vita. La pietà muore insieme al primo che uccidi. Era morto anche lui, per questo sorrideva.”
Amore e rovina
Non c’è tenerezza salvifica, né armonia narrativa: il loro legame è fatto di slanci e rovine, come certi edifici che resistono solo perché non sanno cadere del tutto.
Mazzantini li tratteggia senza pietà, ma con una verità struggente: l’amore, a volte, è anche ciò che ci guasta, che ci smonta e ci costringe a guardarci senza alibi.
“Ha la faccia di una donna un po’ sgomenta, di quelle che trascinano la loro sconfitta eppure continuano ad arrabattarsi con dignità. La mia faccia, forse, quella di una ragazza invecchiata, ferma nel tempo, per fedeltà, per timore.”
Scrivere l’indicibile
La sua scrittura non cerca effetti speciali. È materica, sporca, bellissima. Riesce a dire l’indicibile con immagini che ti restano addosso come polvere dopo una deflagrazione.
Venuto al mondo non consola, non insegna. Ti trascina dentro un’esplorazione violenta dell’umano e, quando riemergi, hai addosso un silenzio nuovo. Non quello dell’assenza, ma quello di chi ha visto troppo per parlare ancora allo stesso modo.
A cura di Veronica Aceti
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