L’ingresso a corte e la ribellione silenziosa
Ventotto anni fa, a Parigi, in un tunnel che oggi sembra più un confessionale che un passaggio stradale, si è spenta la donna che aveva fatto tremare le mura più solide d’Inghilterra. Diana Spencer, la principessa che non voleva restare zitta, che non voleva piegarsi all’algebra fredda della monarchia. Non morì soltanto una principessa, ma l’illusione che si potesse ingabbiare un’anima irrequieta sotto il peso di una corona.
Diana era entrata a corte come un sogno da copertina: giovane, bionda, timida. Ma la timidezza era solo il preludio di una ribellione silenziosa. La monarchia la voleva docile, decorativa, un’icona di porcellana da esibire nei banchetti e nelle cerimonie. Invece lei, con i suoi occhi tristi e grandi come finestre spalancate, mostrava al mondo le crepe: il matrimonio infelice con Carlo, la presenza ingombrante di Camilla, l’isolamento dietro le pareti dorate di Buckingham Palace.

Lady Diana PH WP
Una principessa che raccontava le proprie ferite
Non era facile essere la “principessa del popolo” dentro una famiglia che del popolo non voleva neppure sentire l’odore. Diana parlava di bulimia, di depressione, di solitudine. Parlava dei suoi dolori in televisione, mettendo a nudo la verità che la corona voleva cancellare. Una verità scandalosa: anche la donna più fotografata del mondo poteva sentirsi sola come una ragazzina dimenticata.
L’ultima corsa e la fine di un’epoca
Il 31 agosto 1997, quella corsa in auto con Dodi Al-Fayed, la fuga dai paparazzi, il boato sordo del destino. Con lei se ne andò non solo una principessa, ma un’epoca intera. Le lacrime di milioni di persone non erano per la favola interrotta, ma per la crudele scoperta che i sogni, anche i più luminosi, finiscono in una galleria buia.
L’eredità di Diana
Diana resta, ventotto anni dopo, un enigma che la monarchia non ha mai saputo risolvere: fragile e potente, ferita e amatissima. La donna che insegnò che il potere non basta a guarire un cuore, ma un cuore può far tremare il potere.