Intervista a Debora Baldoni, avvocata civilista esperta in diritto di famiglia dell’Associazione Senza Veli Sulla Lingua a Milano
Abbiamo chiesto a Debora Baldoni di raccontarci le sfide, le contraddizioni e le complessità che una donna incontra quando decide di denunciare violenze subite in ambito familiare, e come la legge si rapporta alla realtà vissuta.

Avvocata civilista Debora Baldoni, esperta in diritto di famiglia.
Qual è il momento più difficile del suo lavoro: tradurre il dolore di una donna in un linguaggio legale o spiegare alla legge che quel dolore non sempre ha le prove per essere creduto?
Il momento più difficile è spesso quello di far comprendere alle donne che, nel contesto di un processo, esistono due verità distinte. La verità processuale è la ricostruzione dei fatti basata esclusivamente sulle prove ammesse dal giudice, circostanze che entrano in tribunale solo se presentate secondo le rigide regole del diritto positivo. È questa verità che convince l’organo giudicante a emettere una sentenza.
La verità storica, invece, è la realtà oggettiva, ciò che è realmente accaduto nella vita delle persone, indipendentemente da come venga presentata in tribunale. È la verità che le donne vivono tra le mura domestiche e che spesso subiscono in silenzio per paura o vergogna.
Non è mai semplice far accettare che le due verità possano divergere. Talvolta, con amarezza, ci si rende conto che la verità processuale è solo un’approssimazione di quella reale, e che le procedure giudiziarie e le limitazioni probatorie impediscono che le due storie coincidano pienamente, soprattutto in casi di violenza sulle donne.
In tribunale la giustizia indossa la toga, ma fuori cosa indossa? Come cambia, per una donna e madre che denuncia, la propria vita familiare?

convegno codice rosso presso Deutsche Bank
Quando una donna denuncia ed è anche madre si rende necessario che la medesima si attivi per tutelare, non solo se stessa ma anche anche per preservare l’integrità psico-fisica del minore. Nei reati che avvengono in ambito domestico, definiti ‘maltrattamenti in famiglia’, i minori spesso diventano spettatori involontari della violenza subita dalla madre. Questo tipo di violenza è conosciuto come violenza assistita.
Se i minori sono esposti a grave pericolo, l’autorità giudiziaria può adottare provvedimenti urgenti, che spesso comportano l’inserimento della madre e dei figli in una comunità protetta. In questi casi si apre un procedimento avanti al Tribunale dei Minorenni per valutare l’idoneità del padre e della madre a esercitare responsabilmente il ruolo genitoriale.
La donna vittima di violenza assume così una doppia responsabilità: tutelare sé stessa e dimostrare di essere un genitore capace di garantire ai figli un ambiente familiare sicuro, dove cura e dialogo restano i tratti distintivi.
Quando una donna denuncia, la legge le chiede prove. Ma quando un uomo minaccia, spesso basta la parola. Come si traduce questa situazione nel processo?
Il principio costituzionale fondamentale in gioco è quello della presunzione di innocenza, che tutela il diritto dell’imputato di essere considerato innocente fino alla sentenza definitiva, che talvolta arriva dopo tre gradi di giudizio.
Per contrastare la violenza contro donne e minori, il legislatore ha recentemente introdotto il ‘Codice Rosso’, un insieme di norme che prevede procedure più rapide e pene più severe per reati come stalking, violenza sessuale e maltrattamenti in famiglia. Il Codice Rosso stabilisce canali prioritari e tempi ristrettissimi per la presa in carico della vittima.
Il giudice può emettere provvedimenti cautelari immediati, come il divieto di avvicinamento della persona offesa o l’allontanamento del presunto maltrattante dalla casa familiare, anche prima che il processo inizi, qualora sussistano gravi indizi di colpevolezza. Così facendo il legislatore ha cercato di trovare un difficile equilibrio tra due esigenze contrapposte: il rispetto del principio d’innocenza dell’imputato e la tutela dei soggetti fragili.
A cura di Veronica Aceti