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Boomer e odio online: non è cattiveria, ma un SOS ignorato

I Boomer promuovono davvero l'odio online? La scienza scagiona genitori e nonni: non è rabbia, ma difficoltà digitale. Ecco come salvare il dialogo in famiglia

by Laura Farnesi
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Quante volte ci è capitato di aprire Facebook e trovare un commento imbarazzante di un genitore, o una condivisione “indignata” di una zia su una notizia palesemente falsa? Spesso alziamo gli occhi al cielo, sospiriamo e pensiamo: “Ecco, ci risiamo. Sono diventati tutti leoni da tastiera”.

Si sente spesso dire che i Boomer (la generazione nata tra il 1946 e il 1964) siano i principali responsabili dell’odio online, pronti a insultare e condividere fake news. Ma se vi dicessimo che la realtà è molto diversa e, per certi versi, più tenera e complessa?

Uno studio approfondito ci svela che dietro quella rabbia apparente non c’è cattiveria, ma un grande bisogno di aiuto. Ecco cosa sta succedendo davvero ai nostri genitori sul web.

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Non è odio, è un “dialetto” diverso

Prima di giudicare quel commento scritto interamente in MAIUSCOLO (che nel linguaggio del web equivale a urlare), dobbiamo fare un passo indietro. Per noi nate con lo smartphone in mano, distinguere una chat privata da una bacheca pubblica è naturale. Per loro, no.

Gli esperti lo chiamano “Collasso dei contesti”. Immaginate vostro padre al bar che discute animatamente di politica con un amico. I toni si alzano, magari scappa una parola grossa, ma finisce lì, tra un caffè e una risata. Il problema è che molti adulti vivono Facebook esattamente come quel bar. Non si rendono conto che quel commento impulsivo non lo stanno dicendo solo all’amico, ma lo stanno urlando in una piazza globale indelebile. Quello che a noi sembra odio online, per loro è spesso solo uno sfogo da bar finito nel posto sbagliato.

La trappola della fiducia

C’è un dato che fa riflettere: una ricerca condotta dalle università di Princeton e New York ha svelato che gli over 65 condividono molte più fake news dei giovani. Perché? Sono meno intelligenti? Assolutamente no.

Sono cresciuti in un mondo in cui, se una notizia passava in TV o era scritta sul giornale, era vera. Hanno quella che si chiama “fiducia editoriale”. Quando vedono un post su Facebook che sembra un articolo di giornale, il loro istinto è fidarsi. Non condividono bufale razziste o politiche per malizia, ma perché cadono in trappole create apposta per indignarli. Sono vittime di un sistema che sfrutta la loro ingenuità digitale per generare click.

Soli davanti all’algoritmo

La verità più scomoda è che li abbiamo lasciati soli. Mentre a scuola si inizia (timidamente) a parlare di educazione digitale, per la fascia over-60 non c’è nulla. Le piattaforme social sanno benissimo che questo pubblico è più vulnerabile emotivamente e gli algoritmi tendono a mostrare loro contenuti che confermano le loro paure (la famosa Echo Chamber o camera dell’eco). Se la nonna vede solo notizie spaventose sul feed, è normale che reagisca con paura e aggressività.

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Cosa possiamo fare noi? (Invece di bloccarli)

Invece di tagliare i ponti o deriderli nelle nostre chat di gruppo, possiamo provare una strategia diversa: la “Mentorship Inversa”. Non serve spiegare loro come si accende il tablet (lo sanno fare!), serve spiegare come funziona la rete.

Spieghiamo le regole non scritte: “Mamma, se scrivi in maiuscolo sembra che stai urlando contro tutti, meglio usare il minuscolo”.

Facciamo i detective insieme: “Papà, questo titolo sembra incredibile. Prima di condividerlo, proviamo a cercarlo su Google insieme?”.

Mostriamo empatia: Capire che la loro rabbia online spesso nasconde solitudine o smarrimento è il primo passo per trasformare l’odio online in dialogo.

I nostri genitori ci hanno insegnato a camminare e a stare al mondo. Ora tocca a noi prenderli per mano e accompagnarli in questo mondo digitale, affinché non siano più “hater per sbaglio”, ma nonni connessi e consapevoli.

A cura di Laura Farnesi

Leggi anche: Il divano e i pericoli della sedentarietà

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