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C’era una volta la DDR

La Berlino della DDR raccontata con magistrale bravura e senza sconti

by Veronica Aceti
c'era una volta la DDR

Berlino: la città che non ha paura delle sue cicatrici

“Alexander Platz, auf wiedersehen / c’era la neve, faccio quattro passi a piedi / fino alla frontiera…”
Franco Battiato – Alexander Platz

Viaggio emotivo tra memoria, resistenza e rinascita

Il fascino che ha su di me Berlino è direttamente proporzionale alla sua storia, alla sua rinascita. Alla sua malinconia in ogni pezzo di marciapiede, alla sua corsa verso il futuro facendo sempre tappa al passato.
Come un’aquila che comincia a sbattere il becco sulla parete fino a staccarlo, affrontando con coraggio il dolore di tale operazione per poter poi continuare a vivere.

Berlino raccontata dal cinema e dalla letteratura

Berlino è ferita e bellezza. Berlino è resurrezione, con le cicatrici bene in vista, senza vergogna. Una città che non ha paura di mostrarsi a pezzi, perché sa che ogni pezzo ha qualcosa da insegnare.

Ce lo racconta con impressionante e magistrale bravura Wim Wenders ne Il cielo sopra Berlino, dove gli angeli camminano fra le macerie dell’anima, ascoltano i pensieri della gente e s’innamorano della loro fragilità.
Ce lo mostra anche Florian Henckel von Donnersmarck in Le vite degli altri, un film che andrebbe proiettato nelle scuole, nei tribunali, nelle camere da letto. Un film che ti entra nelle ossa e ti fa capire che anche una sola parola scritta può costarti la libertà.

E poi c’è C’era una volta la DDR, in cui Anna Funder cuce insieme testimonianze, sussurri, respiri trattenuti. Ti accorgi che vivere in Germania Est significava vivere in uno specchio deformante, dove la verità veniva filtrata dalla propaganda e ogni passo doveva essere misurato. Non si parlava liberamente nemmeno in cucina, perché i muri avevano orecchie e le orecchie, spesso, portavano divise.

Il terrore silenzioso della Stasi

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La Stasi — quel mostro burocratico che sapeva tutto di tutti — non spiava soltanto. Umiliava. Isolava. Distruggeva senza colpire fisicamente. Bastava logorarti dentro, piano piano. Come gocce d’acido sull’identità.

A Hohenschönhausen, la prigione segreta, il tempo si fermava. Non c’era giorno né notte. C’era solo attesa. E terrore.
“Era un odore meticcio, ma era l’odore della paura allo stato puro. Questo Sommergibile puzzava di umido, vecchia orina e terra: l’odore della sofferenza.”
Non era solo una prigione. Era un esperimento di annientamento psicologico.
L’obiettivo era semplice: farti dubitare di te stesso. Distruggere la tua realtà interna, pezzo per pezzo.

“Il detenuto non doveva sapere chi altro c’era lì, né avere alcun contatto umano che non fosse rigidamente controllato, a fini psicologici, dalle guardie.”

E chi sopravviveva usciva diverso. Più leggero, perché aveva perso qualcosa. L’illusione, forse. L’innocenza. La fede.
Ma anche più forte. Perché chi ha conosciuto l’inferno, non si spaventa più del buio.

Prenzlauer Berg: il cuore della resistenza culturale

E poi c’è Prenzlauer Berg.
Oggi è pieno di caffè biologici, boutique di design e genitori in bicicletta con il caschetto color pastello. Ma una volta era il cuore pulsante della resistenza silenziosa.

Nelle sue soffitte umide, sotto la carta da parati che sapeva di tabacco e disillusione, si leggevano poesie proibite. Si discuteva di filosofia, di arte, di sogni che il regime avrebbe voluto annientare.

C’erano gruppi di intellettuali, artisti, studenti, che non accettavano di arrendersi al grigiore imposto. Persone che rischiavano l’arresto per una battuta, una canzone, una macchina da scrivere.
A volte bastava possedere un libro per diventare un nemico dello Stato.

Eppure, la cultura resisteva. Come l’erba che spacca l’asfalto.
Come la musica suonata sottovoce, come le lettere d’amore in codice.
Come l’ironia — sì, perché anche sotto la sorveglianza asfissiante della Stasi, c’era chi riusciva a ridere. Di nascosto. Ma ridere.
E quella risata, in certi casi, era già rivoluzione.

Ostalgie: la nostalgia per una casa imperfetta

Oggi c’è chi prova nostalgia per quei tempi. Lo chiamano Ostalgie.
Una parola inventata per definire quel sentimento ambivalente, malinconico, che mescola la tenerezza per i piccoli rituali quotidiani — i supermercati vuoti, le Trabant scassate, il caffè surrogato — con l’amnesia collettiva sulla violenza sistemica.

Non è che la gente voglia tornare davvero alla DDR. È che, per chi c’è cresciuto, era la casa. Anche se la casa era in rovina. Anche se c’erano spie nel pianerottolo e microfoni nei muri.
La memoria è una bestia complicata. A volte abbellisce anche il peggio, pur di restare viva.

Ma Berlino no. Berlino non dimentica.
Ti cammina accanto come una vecchia amica sopravvissuta a mille guerre. Ti mostra le sue foto in bianco e nero e poi ti trascina in un club techno sotto terra, dove le luci stroboscopiche sembrano cancellare tutto — tranne la voglia di esserci, di vivere, di non tornare mai più indietro.

A cura di Veronica Aceti

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