C’è una violenza che non urla, non spacca porte, non lascia lividi evidenti, non fa notizia con il sangue, eppure entra piano, si siede accanto e resta.
È la violenza delle parole, di certi titoli ammiccanti, di un’ironia che si finge brillante e invece è solo crudele, della gogna che si traveste da dibattito pubblico.
Non fa rumore, questa violenza, ma scava.
La parola: da cura a lama sottile
Viviamo in un tempo in cui le persone colpiscono senza alzare la voce, basta una frase detta per scherzo, un commento buttato lì, una notizia costruita per attrarre clic più che per raccontare la verità. Nessuno si sente responsabile, perché nessuno si sente autore. È sempre il sistema, il pubblico, la rete e intanto qualcuno cade, in silenzio.
La parola, che dovrebbe essere cura, diventa lama sottile, non uccide subito, logora, isola, espone e quando finalmente il danno emerge, è già stato normalizzato.
Etica e responsabilità: il dovere di umanità
Qui la questione non è il diritto di parola, è il dovere di umanità.
Ogni parola ha un peso etico, anche quando si traveste da leggerezza. Ogni titolo ha una responsabilità, anche quando si nasconde dietro l’urgenza dell’attualità. Ogni risata ha una direzione: può sollevare o schiacciare.
Dal punto di vista giuridico, la linea è chiara: la dignità della persona non è negoziabile, non è un’opinione, non è un optional.
Ma prima ancora della legge, c’è qualcosa di più scomodo: la coscienza. Perché non tutto ciò che è consentito è giusto e non tutto ciò che fa audience è legittimo.
L’altro come personaggio: la disumanizzazione
C’è una violenza che nasce quando smettiamo di vedere l’altro come persona e iniziamo a trattarlo come personaggio. Quando una vita reale diventa materiale narrativo. Quando il dolore diventa intrattenimento. Quando l’ironia perde la grazia e si fa sarcasmo punitivo.
Io capisco la rabbia, capisco la voglia di dire, di denunciare, di smascherare, capisco persino il bisogno di sfogo, ma non giustifico la disumanizzazione.
Perché nel momento in cui smettiamo di proteggere la dignità di chi è fragile, stiamo scavando una fossa che prima o poi accoglierà anche noi. Nessuno è al riparo da una parola sbagliata detta nel momento sbagliato, da un titolo costruito male, da una narrazione che semplifica e schiaccia.
La violenza che non fa rumore è la più pericolosa proprio per questo: non scandalizza, non indigna, non interrompe il flusso, passa e resta.
Forse il vero atto rivoluzionario oggi è questo: parlare senza ferire, raccontare senza esporre, informare senza umiliare, non è censura, è civiltà.
E alla fine resta una domanda semplice, che dovrebbe accompagnare ogni parola pronunciata o scritta: se fossi io dall’altra parte, questa frase mi salverebbe o mi distruggerebbe?
Perché le parole passano, ma quello che fanno alle persone, no.
A cura di Letizia Bonelli
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