Un romanzo che non può essere solo raccontato
«Dicono che tutto è scritto e non si può cambiare niente. Sono Momo e sono orfano. Io voglio cambiare tutto.»
Mi sono chiesta a lungo se sarei stata capace di scrivere qualcosa su questo romanzo. Non una recensione nel senso tecnico del termine, ma un tentativo di raccontare l’impatto che ha avuto su di me. Ogni volta che ho provato, ho sentito di non esserci riuscita. Come se le parole non bastassero mai. Come se il dolore, quando è troppo, quando è quello vero, quello che ti scarnifica dall’interno, non si potesse tradurre in lettere. Toglie il respiro. Ti fa alzare la mano come per dire basta, e poi ti spalanca gli occhi. Ma non piangi subito. No. Le lacrime arrivano dopo. Quando ti senti al sicuro. Quando capisci di non esserlo mai stato davvero.
La vita di Momo: vivere oltre il dolore
La vita davanti a sé PH WP
Momo è un bambino. Ma non uno di quei bambini delle pubblicità del Mulino Bianco. No. Momo vive. E vivere, nel suo caso, è un verbo pesante, storto. Vive insieme ad altri bambini come lui, figli di donne che non possono fare le mamme. Non possono tenerli. Prostitute, perlopiù. Siamo nella periferia di Parigi, in un palazzone alto, al sesto piano, in un tempo che non fa sconti: il dopoguerra. È un luogo dove l’infanzia non ha diritto di cittadinanza. Dove crescere significa arrangiarsi, diventare grandi troppo presto, e imparare che l’amore è un lusso per pochi.
Madame Rosa: l’unica famiglia che Momo conosce
In mezzo a questo scenario c’è Madame Rosa. Un’anziana signora, sopravvissuta ad Auschwitz, ebrea, obesa, malata, ma con dentro una forza che non si vede a occhio nudo. Accoglie questi bambini in cambio di pochi franchi, sì, ma soprattutto li tiene insieme con quel filo invisibile che è la sopravvivenza condivisa. E poi c’è Momo. Momo che le vuole bene in modo assoluto. Di un bene che non ha le parole per dire. Un bene profondo, viscerale, che non ha bisogno di essere spiegato, solo vissuto. Perché Madame Rosa è tutto quello che lui ha. È la sua casa. La sua unica persona al mondo. La sua famiglia.
Il cuore di “La vita davanti a sé”
E mentre la vita scorre, tra i quartieri popolari, le paure, l’identità che cerca di prendere forma, e il corpo che comincia a cambiare, Momo racconta. Con una voce che è insieme ingenua e lucidissima. Una voce che ti disarma, che ti inchioda alla pagina. Perché è proprio lì, in quel tono apparentemente leggero e infantile, che il libro ti colpisce più forte. Ti fa ridere e subito dopo ti sbatte contro una verità cruda, senza difese.
“La vita davanti a sé” non è solo un romanzo. È una carezza data con mani sporche, è un pugno allo stomaco con un sorriso sulle labbra. È una dichiarazione d’amore alla vita, anche quando la vita non è giusta, anche quando ti toglie tutto. È uno di quei libri che non si dimenticano. Uno di quelli che ti spezzano.
Io ne sono uscita devastata. Ma anche profondamente grata.
Grata a Romain Gary – che qui si firma Émile Ajar – per aver scelto di raccontare una storia così. Con coraggio. Con poesia. Con verità.
Un finale che strazia
E adesso mi fermo. Perché credo davvero che certe pagine vadano lette, non raccontate.
Per capire cosa sia l’amore quando non ha etichette. Per capire cosa sia l’infanzia quando è negata. Per capire che sì, forse tutto è scritto…
Ma anche no.
Perché Momo vuole cambiare tutto.
E, leggendo questo libro, un po’, ti viene voglia di farlo anche tu.
Il finale mi ha dilaniata.
Mi ha lasciata lì, in silenzio, con il cuore spaccato in due. Una parte che non voleva accettare, l’altra che ringraziava per aver provato tanto.
Perché è questo che fanno le grandi storie: non consolano, non chiudono cerchi. Ti lasciano ferito e vivo.
E questa, più di ogni altra cosa, è la forma più autentica dell’amore.
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