Una scrittrice che scriveva con il corpo e con l’anima
Ogni parola di Michela Murgia aveva il peso della vita. Non scriveva per riempire pagine, ma per incidere sulla pelle dei lettori. Con Accabadora, il libro che le regalò il Premio Campiello, ci portò in una Sardegna segreta, arcaica, abitata da figure femminili che custodivano il confine tra la vita e la morte. “La morte si serve meglio con le mani che con le parole,” scrisse, e in quella frase c’è tutta la sua idea di letteratura: non decorazione, ma sostanza, non intrattenimento, ma verità.
Un cuore politico e letterario
Murgia non nascose mai la sua vocazione politica. In Ave Mary smontò secoli di narrazioni religiose che avevano incatenato le donne all’obbedienza. “Maria non consola, Maria educa alla rinuncia,” denunciò, con quella lucidità che le permetteva di toccare temi scomodi senza paura di scandalizzare. In Futuro interiore ci invitò a non restare prigionieri della nostalgia: “Il futuro non si eredita, si sceglie.” Ogni suo libro conteneva un manifesto, una chiamata all’azione.
Con Chirù, romanzo del 2015, esplorò il rapporto tra maestra e allievo, donna adulta e giovane uomo, in un gioco sottile di attrazione, potere e fragilità. “Gli allievi non appartengono ai maestri, ma li costringono a guardarsi nello specchio,” scrisse, ricordandoci che la crescita non è mai unidirezionale, ma scambio continuo.

Michela Murgia PH WP
La vita prima dei libri
Prima di diventare Michela Murgia, scrittrice affermata, fu Michela Murgia, operaia in un call center. Raccontò quell’esperienza in Il mondo deve sapere, un testo feroce e ironico insieme, dove descrisse il lavoro come un teatro dell’assurdo. “Il telefono squilla come un cuore in arresto,” scrisse, e chiunque abbia vissuto la precarietà si riconobbe in quell’immagine. Da quel momento la sua voce cominciò a farsi ascoltare: non più solo una ragazza sarda che annotava la vita, ma una scrittrice che metteva in piazza le ipocrisie del sistema.
L’impegno che non arretrò mai
Michela Murgia non si accontentò del successo letterario. Parlò in teatro, in radio, sui social, in politica. Difese i diritti delle donne e delle persone LGBTQ+, sfidando il potere e l’ipocrisia. “La neutralità è complicità” ,disse in più di un’occasione, trasformando ogni intervento in un atto di responsabilità. Anche quando si candidò in Sardegna, non cercò mai il consenso facile, ma la possibilità di scuotere un dibattito addormentato.
L’ultima lezione
Quando annunciò la sua malattia, lo fece con la stessa fermezza che aveva guidato tutta la sua vita. “Non ho paura della fine, ho paura di non aver vissuto abbastanza,” confidò. Non chiese compassione, ma rispetto. Rivendicò la libertà di scegliere come vivere e come morire, trasformando la propria fragilità in un messaggio politico e umano.
Un’eredità che ci obbliga a continuare
Rileggere oggi Michela Murgia significa incontrare una voce che non fa sconti, che non consola, ma che accompagna. Ci lascia un compito preciso: non abbassare lo sguardo davanti all’ingiustizia, non rinunciare a se stessi, non restare in silenzio.
La sua eredità non è un ricordo: è un impegno. Vive nei suoi libri, nelle battaglie che ha scelto, nelle risate ironiche che smontavano la retorica più solenne. Vive in chi, grazie a lei, oggi osa dire: “Il futuro non si eredita, si sceglie.”
E della voce di Michela Murgia si sente, a due anni dalla sua morte, una incredibile mancanza.
A cura di Veronica Aceti