Intervista all’avvocata penalista Elena Augustin
Componente del direttivo della Camera penale di Prato e dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane. Collabora con l’associazione Senza Veli sulla Lingua, sezione di Prato.

Avvocata Elena Augustin PH WP
– Come spiegate alle donne che assistete – spesso ferite, traumatizzate, in fuga dalla violenza – che certi atti non vengono considerati premeditati o crudeli?
«Entriamo in un discorso altamente tecnico. Crudeltà e premeditazione, dal punto di vista del diritto, non hanno un significato identico a quello che viene attribuito a tali termini nel linguaggio comune. Stiamo parlando di questioni che attengono alla determinazione della pena. Focalizzerei piuttosto l’attenzione sulla prevenzione di questi drammatici delitti, considerando che, come nel caso della sentenza Impagnatiello, è stata comunque confermata la pena dell’ergastolo (pena massima) a prescindere dalla presenza o meno di alcune aggravanti contestate.»
– Alla luce della vostra esperienza, quanto conta – nelle sentenze – la capacità di raccontare la verità di una vittima che non può più parlare?

Avvocata Elena Augustin, formazione a Prato ph ig
«Nei delitti di omicidio si celebrano processi in cui la vittima non può più parlare, ovviamente. È una tipologia di processo che, per sua natura, vede svolgersi un’istruttoria fondata su prove che hanno necessariamente una fonte diversa dalla testimonianza della vittima. Le donne che denunciano di subire reati, in particolare quelli comunemente conosciuti come da “codice rosso”, devono essere informate che è sempre opportuno denunciare (o meglio presentare denuncia-querela) e raccontare tutti gli episodi con oggettività e dovizia di particolari e, ove possibile, indicare gli elementi a sostegno del reato subito. Questo perché il nostro sistema processuale prevede, in caso di successiva morte della persona offesa o di altro testimone, che le dichiarazioni rese in fase di indagini agli Inquirenti (ora obbligatoriamente e possibilmente videoregistrate) vengano acquisite al fascicolo processuale e utilizzate dai Giudici per la decisione.»
– Quanto è difficile, per le associazioni e per le vittime, combattere la narrazione della “persona per bene” quando poi sotto si cela un omicidio?

Avvocata Elena Augustin PH IG
«Ritengo che etichettare le persone come “per bene” o “malvage, pericolose o altro” è sempre sbagliato, a prescindere. Spesso, poi, tali stereotipi si fondano su giudizi superficiali, legati all’apparenza dei comportamenti, non alla realtà dei fatti. Pensiamo ad esempio a come sono diverse, spessissimo, le persone a seconda delle circostanze in cui si trovano (in ambito lavorativo, in privato, in pubblico e via dicendo).
Quindi: in presenza di qualunque gesto e condotta allarmante da parte di una qualunque persona, con cui si sia intrattenuto o meno un rapporto di intimità, debbono essere allertate le forze dell’ordine ed è sempre consigliabile adottare delle strategie difensive personali, a livello di prevenzione, quali ricerca di protezione nella rete familiare e sociale, interrompere contatti o occasioni di incontro in solitaria.
Nessuno può pretendere di conoscere così bene la persona che ha mostrato comportamenti negativi e offensivi nei propri confronti tanto da poterlo qualificare con certezza come persona che non le farebbe mai del male, perché si pensa (o gli altri pensano) sia una “persona per bene”. Anche colui che si è in effetti sempre comportato bene e onestamente con tutti, sia essa apparenza o sostanza, può passare dall’altra parte in un attimo, diventando autore di un reato, “spogliandosi” dei panni di persona “perbene”.
Quindi: attenzione massima alla sostanza e non alla forma.