“Io Chirú lo riconobbi dall’odore di cose marcite che gli veniva da dentro, perché quell’odore era lo stesso mio”.
Michela Murgia, con il suo, per me, capolavoro.
È do ut des per provare a capire quanto possibile possa essere amare in un altro la nostra stessa fragilità, ricoperta solo da bordi differenti. La stessa che a noi non perdoniamo.
Riconoscere la provenienza delle cose non dette, provare a dare un nome diverso al gioco di potere che procurano le insicurezze nella nostra vita.
Per me, Michela Murgia con il suo Chirù si riconferma la straordinaria scrittrice che tanto ho Amato.
Uno sguardo oltre. Una voce oltre.
Due anime in bilico sulla soglia del riconoscimento

Chirù PH IG
Chirù è una storia che si muove su una soglia. Non dentro e nemmeno fuori. È quel luogo in cui si sta prima di cadere, prima di amare, prima di capire. È la soglia del potere e del bisogno, del dare e del ricevere.
Eleonora, la protagonista, è una donna affermata, piena di talento, rigorosa, di quelle persone che sembrano sapere tutto di sé. Ma in realtà conosce solo la parte che ha costruito per farsi guardare da fuori.
E poi arriva lui, Chirù. Ventidue anni, attore in erba, occhi aperti, cuore ancora in disordine. Lui la sceglie come guida, come maestra. Le scrive una lettera, le chiede di essere formato. Ma dietro quella richiesta c’è molto di più. C’è una fame di senso, un’inquietudine antica, quel bisogno di essere visti nel punto esatto in cui ci sentiamo mostruosi.
Relazioni che non si lasciano definire
Da qui parte il racconto. Ma non aspettarti un viaggio rassicurante.
La loro relazione non ha definizioni comode. Non è amore romantico, non è amicizia, non è maternità surrogata. È qualcosa di più sottile e più scomodo. Un’attrazione che non passa dal corpo ma dalle crepe interne, dai punti molli, da quelle zone non protette che teniamo a bada a fatica.
Si cercano. Si trovano. Si soppesano. E si usano, a tratti. In un equilibrio fragile dove la generosità è spesso una forma elegante di controllo, e la gratitudine può diventare una catena.
Ma soprattutto, Chirù è un esercizio di riconoscimento. Un guardarsi addosso usando l’altro come specchio. Non per narcisismo, ma per disperata voglia di comprensione.
E in quel riflesso, a volte, troviamo esattamente quello che non sopportiamo di noi. Ma stavolta non possiamo scappare. L’altro custodisce il nostro stesso punto di rottura, solo disegnato con linee diverse.
A volte l’amore è una crepa condivisa
Questo libro resta dentro. Ha il passo dei pensieri che tornano di notte.
E Michela, con quella voce che non cerca di impressionare ma di entrare in profondità, ci ricorda che non esiste insegnamento senza un margine di violenza, e che nessun amore è completamente disinteressato, soprattutto quando nasce da quella zona scoperta che ci pulsa sotto pelle.
Chirù è un romanzo che parla a chi ha avuto maestri, a chi ha cercato padri, a chi ha inseguito sguardi.
Ma soprattutto, parla a chi ha provato ad amare non qualcuno che ci completasse, ma qualcuno che ci somigliasse nei nodi irrisolti, nei vuoti condivisi.
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