Don Fabrizio è lo splendore dell’ultima nobiltà
C’è un uomo, nel cuore sfarinato della Sicilia ottocentesca, che non somiglia a nessun altro. Non grida, non impone, non cerca di salvare niente. Ma osserva. Si chiama Don Fabrizio, Principe di Salina, ed è un aristocratico che sa morire con grazia.
Dentro Il Gattopardo, il romanzo unico e irripetibile di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, non c’è la nostalgia. C’è qualcosa di più tagliente: la lucidità. Lo sguardo alto e insieme disilluso di un uomo che ha compreso prima degli altri che tutto sta cambiando, e che a lui non resta che attraversare il declino con lo stile di chi sceglie persino come cadere.
Don Fabrizio è scienza e carne, matematica e malinconia, saggezza e solitudine. Ma sopra ogni cosa, è eleganza. Non quella delle stoffe pregiate o delle posate d’argento lucidate con il panno di lino. È l’eleganza della mente, del gesto controllato, della parola dosata.
Cammina tra i saloni della sua casa come se calpestasse il passato, con lo stesso rispetto con cui si sfiora una reliquia. Guarda i cieli siciliani non per leggerci Dio, ma per misurarne la distanza. Il suo modo di stare al mondo somiglia a un addio che non fa rumore.

Il Gattopardo
La figlia e l’affetto silenzioso che non chiede nulla
Nel rapporto con la figlia c’è tenerezza incisa, come certi intagli nelle cornici antiche che non si notano subito, ma resistono al tempo. Don Fabrizio è un padre, prima di essere Principe. Nei silenzi, negli sguardi, nelle concessioni minime che dicono tutto.
Lei gli appartiene come appartiene la Sicilia: non per diritto, ma per destino. Si capiscono nel non detto, si somigliano nei margini, si sfiorano più con l’anima che con le mani. In quell’intesa quieta, sospesa tra l’amore e la rassegnazione, si legge la parte più intima del romanzo.
Una terra che si sbriciola con dignità
La Sicilia che descrive Tomasi di Lampedusa non è mai solo sfondo. È corpo, odore, sangue. È un’isola che non cambia, che resiste a ogni rivoluzione più per stanchezza che per orgoglio. C’è l’arrivo dei Garibaldini e l’Unità d’Italia.
I baroni fingono di cedere, i borghesi si travestono da riformatori, e tutto resta com’era. Perché qui, per far sì che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi. E Don Fabrizio lo sa. Ha capito che la decadenza è un’arte, e lui è uno dei pochi a saperla praticare senza sporcarsi le mani.
Una bellezza che sa farsi ombra
Don Fabrizio vuole che la sua epoca finisca senza rumore e senza volgarità, come un abito che scivola via dalle spalle. E in questo risiede la sua nobiltà più profonda. Non nei titoli, non nei privilegi, ma nella sua capacità di accompagnare la decadenza senza svendersi al presente.
Una Sicilia che sa di sabbia, seta e sudore. Un uomo che ama senza chiedere nulla in cambio. Un libro che non urla, ma incide. Come un graffio che non sanguina, ma resta.
A cura di Veronica Aceti
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