Non era solo “quella di Jagger”. Era una poetessa, una sopravvissuta, una delle voci più profonde del Novecento. È tempo di raccontarla per intero.
Marianne è stata per me tutto quello che rappresenta l’idea di cosa voglia dire essere un’artista.
Sento ancora, praticamente ogni giorno, la sua voce roca, meravigliosa e indimenticabile.
L’ adoro nel controcanto insieme ai Metallica in The Memory Remains, dove sembra di sentire il canto di una strega, di una maga, o di una carillonista intrappolata nel tempo. Nel video canta in un corridoio buio, gira la manovella di un organo a rullo, e tutto ruota attorno a lei, come in un sogno ipnotico e sinistro.
L’ adoro anche nel film Irina Palm, dove sfida ogni tabù e racconta cos’è davvero l’amore di una nonna per un nipote, anche quando la disperazione ti svuota le lacrime dagli occhi. Un’interpretazione dolcissima, ironica, intelligente… unica.
Come lei. La mia Marianne.

Marianne Faithfull ph wp
Cantare per sopravvivere: Marianne e la musica come redenzione
Marianne non ha mai cantato per piacere agli altri. Ha cantato per restare viva.
Dalla dolcezza malinconica di As Tears Go By — il primo brano che le diede notorietà, scritto per lei da Jagger e Richards — fino all’abisso tagliente di Broken English, Marianne ha usato la musica come strumento di resistenza.
In Broken English (1979), sputa rabbia e disillusione. È l’urlo di una donna che ha attraversato l’inferno e ha trovato una voce nuova, più ruvida, più vera.
«What are you fighting for?», chiede. Non c’è più spazio per le illusioni: l’amore romantico è morto, la rivoluzione è fallita, ma lei è ancora in piedi.
E poi The Ballad of Lucy Jordan, che racconta la storia di una casalinga intrappolata nella sua vita borghese, che sogna Parigi e la libertà. Una canzone dolcissima e crudele, in cui Marianne sembra raccontare ogni donna che ha perso se stessa nella quotidianità.
E che dire di Why D’Ya Do It?, in cui vomita dolore, sesso, rancore, senza pudore né grazia. È una confessione punk, uno sfogo viscerale che la BBC rifiutò di trasmettere. Ma Marianne non cercava approvazione. Cercava verità.
Il suo album Vagabond Ways (1999) è un diario di bordo maturo e struggente. In File It Under Fun From the Past, ripercorre i suoi anni con gli Stones, le overdosi, le fughe, gli ospedali psichiatrici, con uno sguardo disincantato e poetico. Non si assolve, non si condanna. Racconta. E tanto basta.
Marianne ha vissuto tutto: la beatitudine e la distruzione, la fama e il marciapiede, l’eroina e il convento, l’amore e la perdita.
Ha toccato il fondo, dormito per strada, perso l’affidamento del figlio, ma ha trovato il modo di raccontarlo. E questo, in un mondo che zittisce le donne rotte, è rivoluzionario.
Marianne: musa di se stessa e simbolo di vulnerabilità
Nonostante molti riducessero la sua figura a un’ombra del palcoscenico degli anni ’60, la sua forza risiede nel profondo. Marianne ha deciso di non essere soltanto la musa di qualcuno, ma la musa di se stessa. La sua arte testimonia che la vulnerabilità è una forza potentissima. E per questo, Marianne ha continuato a essere molto più di ciò che il mondo voleva che fosse.
Un dolore vero, come per una persona amata
Quando ho appreso della sua scomparsa, ho avvertito un dolore reale, profondo, travolgente.
Non si trattava di una semplice notizia: ho sentito come se perdessi una persona che conoscevo, una persona a cui volevo bene, molto bene. Quel bene che si prova per chi ti salva, anche solo con una canzone o con uno sguardo impresso nella pellicola. Era fatta di carne, versi e cicatrici. Di canzoni che sapevano di whisky e solitudine. Di un passato che le dormiva accanto come un animale difficile da addomesticare.
Quel sentimento resta vivo, nelle pieghe di ogni nota roca che ancora oggi mi raggiunge.
Rimane con me. Come lei. La mia Marianne.
A cura di Veronica Aceti
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