Oriana Fallaci non fu semplicemente una giornalista o una scrittrice: fu un’arena. Una battaglia continua tra l’impulso alla verità e la spietatezza della realtà, tra l’intelligenza affilata e il tormento interiore. Esile ma intransigente, sfrontata e malinconica, costruì il proprio mito sulla sfida: al potere, ai dogmi, all’ipocrisia. Il suo stile era tagliente, impastato di indignazione e lirismo, intriso di quella rabbia esistenziale che l’ha resa Oriana.
Una Penelope senza Itaca

Oriana Fallaci PH WP
Nel 1967 pubblicò Penelope alla guerra
Non è una storia d’amore, non è una favola di rivalsa. Semplicemente il disincanto come destino.
L’America che Giovanna si aspettava è un miraggio. Gli uomini che incontra—intellettuali, seduttori, arrivisti—non sono cavalieri pronti a salvarla, ma pedine del proprio egoismo. L’amore è una menzogna cortese, la carriera un’illusione precaria. Il successo, per una donna, è ancora legato al desiderio altrui. Giovanna combatte, come una Penelope che ha deciso di non aspettare più, ma la guerra è impari.
Fallaci scrive con ferocia, senza concessioni al sentimentalismo. Ogni pagina è un colpo inferto alle illusioni, un monito per chi ancora crede che l’indipendenza sia un traguardo facile.
L’amore come conflitto
Fallaci amava gli uomini, ma ancor più amava il duello con loro. Li desiderava brillanti, potenti, audaci, ma mai dominanti. La sua vita sentimentale fu costellata di passioni impetuose e dissoluzioni drammatiche. Celebre fu il suo legame con Alekos Panagulis, eroe della resistenza greca, un rapporto incandescente e disperato che la segnò per sempre. Gli uomini l’attiravano e la respingevano: li cercava per la loro forza e li fuggiva quando avvertiva il rischio della sottomissione. In fondo, la sua indipendenza era la sua più grande condanna.
Il vizio della superbia
Se c’era una caratteristica che la definiva, oltre all’acume, era la superbia. Non tollerava il compromesso, rifuggiva la mediocrità, non concedeva sconti a nessuno, meno che mai a sé stessa. Infastidiva i potenti, ma sapeva essere spietata anche con i deboli. Il suo senso della giustizia era feroce, assoluto, e spesso la conduceva all’intransigenza. L’ironia, quando affiorava, era affilata come una lama.
La fine di un’epoca
Negli ultimi anni si isolò nel proprio rancore, sempre più distante dal mondo che aveva raccontato. Malata, fiaccata ma mai piegata, scrisse fino all’ultimo con quella stessa furia che l’aveva resa celebre. Morì nel 2006, lasciando dietro di sé un’eredità di parole incandescenti, amate e odiate con la stessa intensità. Come tutti coloro che hanno osato sfidare il tempo, anche lei non ha conosciuto il riposo: la sua voce continua a bruciare nel dibattito pubblico, nella memoria di chi l’ha letta, di chi ha capito cosa volesse dire essere come la sigaretta che aveva sempre in bocca. Fumo, brace, rovente e caparbia.
A cura di Veronica Aceti
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