Fondazione Zini: il dibattito tra memoria della vittima e rischio riabilitazione
–Buongiorno Patrizia, quali rischi esistono – anche dal punto di vista legale – che simili iniziative possano trasformarsi, magari involontariamente, in una forma di riabilitazione simbolica o mediatica dell’assassino?
“Non è infrequente che certe sentenze emesse dai giudici creino perplessità nell’opinione pubblica italiana, imbarazzo nelle

Patrizia Scotto di Santolo vice Presidente “Senza veli sulla lingua”
associazioni che si battono tutti i giorni per contrastare la violenza sulle donne, e sconforto nei parenti prossimi o meno prossimi alle vittime di femminicidio, riaprendo così ferite antiche mai fin troppo rimarginate.
Ci sono voluti ad esempio due processi per il caso Saman per vedere definitivamente condannata all’ergastolo l’intera famiglia che aveva pianificato la morte della giovane pachistana che si era opposta ad un matrimonio forzato. Che dire poi della sentenza con la quale è stato condannato all’ergastolo Filippo Turetta, il femminicida di Giulia Cecchettin, che ha escluso gli atti persecutori (o stalking) e la crudeltà mentale dell’assassino.
È vero che le sentenze si accettano, ma si possono discutere. Ed è questo il caso della sentenza del TAR sulla Fondazione Zini, che dopo l’opposizione della Regione Toscana nel 2018 ad iscriverla nel Registro Unico del Terzo Settore (Runts), arrivata anche sull’onda emotiva di una raccolta di 9mila firme promossa dalle amiche di Elisa Amato, e dall’associazione Senza Veli sulla Lingua, perché offensiva l’idea di intitolare una onlus contro il femminicidio al femminicida Federico Zini, ha sentenziato che l’Ente potrà essere iscritto a condizione che “non sia intitolato a suo nome”.
Una decisione che a rigor di legge trova la sua applicazione perché da parte della famiglia Zini sono stati colmati quei tre vuoti normativi che ne impedivano l’iscrizione. Sistemati i quali non ci sono più ostacoli, anche se siamo al 1º grado di giudizio e non è detto che le cose non cambino. Ora, alla vigilia del settimo anniversario dell’omicidio di Elisa Amato, sarebbe da capire quale messaggio intende dare la famiglia Zini attraverso questa Fondazione, messa ormai da parte l’idea di intitolarla al suo assassino. Quindi, pur rispettando la decisione del Tar, resto personalmente perplessa perché essa potrebbe generare parecchia confusione nell’opinione pubblica sul tema della violenza sulle donne e dei femminicidi. E dunque auspico, per il bene innanzitutto delle persone coinvolte e della società civile nella quale viviamo, che fin da subito su questo caso sia fatta chiarezza su chi è stata la vittima e chi il suo carnefice.”
– In un’epoca in cui la memoria delle vittime dovrebbe essere sacra, quanto è pericoloso, dal punto di vista culturale ed educativo, che l’attenzione venga spostata – anche solo simbolicamente – sulla figura dell’assassino?
“Pericolosissima. Ecco perché da anni sensibilizziamo l’opinione pubblica con convegni sulla violenza contro le donne che hanno per titolo I diritti delle vittime. Sono loro che meritano tutta la nostra attenzione, perché persone fragili, vulnerabili alle quali non arrivano quasi mai le risposte che si aspettano. Soprattutto in tema di risarcimento, e non solo in denaro, ma anche affettivo ed emotivo.
È come se avessero l’impressione, e noi con loro, che la giustizia, con certe sentenze, penda più dalla parte del carnefice. Ecco perché l’associazione Senza Veli sulla Lingua, in Parlamento, si è battuta per far approvare il No al rito abbreviato in caso di femminicidio. Nel 2016, infatti, fu un duro colpo per la mamma e le sorelle della giovane limbiatese Liliana Mimou, oltre che per l’associazione che si era costituita nel processo parte civile, apprendere che il Tribunale di Monza aveva dato solo 16 anni a Davide Perseo, perché il reo aveva fatto ricorso al rito abbreviato.
Mentre sulla legge Saman, la giovane pachistana che, ricordo all’epoca dei fatti, si poteva salvare come denunciò per prima l’associazione Senza Veli sulla Lingua con la sua presidente Ebla Ahmed, se solo fosse stato applicato l’articolo 18 bis del testo unico di immigrazione (ex 558 bis c.), l’associazione con l’onorevole Stefania Ascari è riuscita a colmare un vuoto normativo facendo inserire tra gli atti persecutori e violenti il matrimonio forzato. E così la legge Saman, una volta approvata, è stata inserita nel decreto Cutro.”
– Secondo lei, quali strumenti concreti servono oggi per evitare che casi come quello di Elisa Amato vengano in qualche modo “neutralizzati” nella coscienza collettiva da operazioni che, seppur formalmente lecite, possono ferire la dignità delle vittime e delle donne?

Audizione alla Camera con i parlamentari Sensi e D’Elia PH IG
“Purtroppo, quando arrivano simili decisioni, come questa del Tar della Toscana che dà ragione alla famiglia Zini, si riaccende il dibattito sulla giustizia, perché si innescano nell’opinione pubblica sentimenti contrastanti che vanno dall’indignazione, allo sconcerto, alla frustrazione. E ci si chiede perché nelle aule giudiziarie non si tuteli piuttosto la vittima di violenza di genere e vengono fuori dubbi sull’efficacia del sistema legislativo nel garantire una risposta adeguata.
Dunque, oltre agli aspetti prettamente giuridici, che dovrebbero contemplare una maggiore attenzione da parte della magistratura, affiancata da interlocuzioni con associazioni e centri antiviolenza, penso che il problema della violenza di genere è e resta profondamente radicato in una questione meramente culturale. E allora è essenziale promuovere una maggiore sensibilizzazione da parte degli organi competenti, oltre all’impegno tra istituzioni, magistratura e società civile, per costruire un sistema equo che contrasti nei fatti la violenza di genere. E che sia soprattutto realmente in grado di tutelare chi subisce violenze, accompagnata da una reale volontà di cambiamento culturale. La violenza non ha, né deve avere, attenuanti, altrimenti si rischia di normalizzare e di legittimare una cultura dove essa trova spazio, giustificazione e umanizza l’assassino.“